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Abstracts 6 (2007), Nr. 1
 

Riassunti Italiani

Giuliano Annibaletti: Un declino irreversibile? I rapporti tra Mantova e l’Impero dopo il 1627, in: zeitenblicke 6 (2007), Nr. 1.

Il giudizio negativo che molta storiografia ha lungamente attribuito al Seicento, per il ducato di Mantova assume toni ancora più marcati e disegna per esso una parabola irrimediabilmente discendente, che non sempre tiene conto di alcuni episodi "in controtendenza", né dà il giusto peso a vicende internazionali che, come e forse più di quelle locali, determinarono lo svolgimento degli avvenimenti.
Le difficoltà che assillarono il Mantovano nel Seicento, d’altra parte, non vanno messe in dubbio: esiste senz’altro una frattura con l’età precedente. Discontinuità che, tuttavia, a mio avviso è stata sottolineata in modo esasperato, tanto da far considerare il periodo 1627-1708 (cioè quegli ottant’anni che vanno dall’arrivo a Mantova dei Gonzaga-Nevers al loro allontanamento in seguito alla messa al bando dichiarata dalla Dieta di Ratisbona), di scarso interesse storico. Spesso, gli storici si sono limitati a deplorare l’operato degli ultimi duchi, sottolineandone la decadenza politica e morale, postulando un inarrestabile declino che dagli splendori rinascimentali porta alla perdita di autonomia e al passaggio sotto la diretta sovranità austriaca.
La relazione cercherà di evidenziare come il progressivo restringersi dei margini di manovra concessi ai signori dei feudi padani, non riguardò solo i Gonzaga-Nevers né la loro fin troppo ricordata inettitudine al governo, ma fu il frutto di un processo geo-politico internazionale, che vide il progressivo calo della potenza spagnola, l’emergere di quella francese e, seppur con difficoltà, il riaffermarsi di quella imperiale. Furono questi fattori, prima di tutto, a far cambiare il significato della presenza dei Gonzaga-Nevers come duchi di Mantova e (non dimentichiamolo!) marchesi del Monferrato, territori-cuscinetto di grande rilevanza strategica.
Inoltre, sembra opportuno rivalutare le importanti relazioni politiche, diplomatiche e matrimoniali (soprattutto con gli Asburgo d’Austria), che i duchi di Mantova seppero mantenere per buona parte del Seicento. Infatti, dopo il loro insediamento, i Gonzaga-Nevers, universalmente ritenuti filo-francesi, seppero riavvicinarsi all’Impero e per circa un quarantennio (dal 1637 al 1678 circa), grazie alla protezione asburgica riacquistarono parte del potere precedentemente perduto.
Solo successivamente al 1681 i rapporti tra Mantova e Impero subirono un deciso peggioramento, per cause molteplici, tra le quali vi è anche il minor interesse, da parte dell’Impero, in anni in cui la "riscossa" dello stesso stava maturando in forma di rinnovata fermezza e intransigenza, ad avvalersi della mediazione di piccoli vassalli per controllare aree di rilevante interesse strategico.
Allettati dalle proposte della Francia, i Gonzaga-Nevers si riavvicinarono ad essa, tanto da permettere che le truppe gallo-ispane nel 1701, durante la Guerra di Successione spagnola, occupassero la città di Mantova. Ma ciò non voleva probabilmente significare, nelle intenzioni dell’ultimo duca Ferdinando Carlo, l’uscita dal sistema feudale nel quale il suo territorio era inserito. Verosimilmente, egli confidò troppo nella potenza francese, non riuscendo a prevedere (la cosa lasciò in verità molti sorpresi) la capacità di reazione dell’Impero, la cui strategia, negli anni immediatamente successivi, si sarebbe basata su un rafforzamento del potere familiare e dinastico degli Asburgo, non tanto tramite il superamento della prospettiva imperiale, ma anzi grazie al sapiente utilizzo di essa. Così essi, grazie a questo "nuovo corso", pur ancora inserito nel quadro dell’Impero le cui caratteristiche "sacre" e "romane" si vogliono anzi riprendere e riaffermare, a inizio Settecento iniziano a controllare sempre più direttamente, e sempre meno tramite stati-vassalli, il territorio italiano.
Questo è l’elemento decisivo, al di là della decadenza politica e/o morale dei Gonzaga e di altri sovrani minori del Seicento italiano, che determina, già a partire dai primi anni del secolo successivo, una netta semplificazione della carta geografica della Penisola.

 

Tommaso di Carpegna Falconieri: I feudi imperiali dei conti e principi di Carpegna (secoli XIII-XIX), in: zeitenblicke 6 (2007), Nr. 1.

I territori al confine tra il Regnum Italiae e il dominio pontificio – tra i quali si situano anche i feudi dei conti di Carpegna – sono particolarmente interessanti dal punto di vista istituzionale, in quanto l’alta sovranità su quei luoghi è stata rivendicata da entrambi i massimi poteri della cristianità medievale, il Papato e l’Impero. In questo senso, sono ben rappresentativi i feudi dei conti di Carpegna nel Montefeltro, che hanno vissuto l’intera loro vicenda storica in questa posizione di indeterminatezza: una posizione che va considerata tra i principali elementi che ne hanno assicurato la longevità istituzionale, dal principio del secolo XIII al 1819.
Nel saggio vengono illustrate le principali relazioni politico-istituzionali tra i Carpegna e l’Impero e, in parte, tra i Carpegna e il Papato. Per il primo punto, si osserva come i conti di Carpegna siano di parte ghibellina al tempo di Federico II, e come probabilmente l’investitura dei loro feudi sia risalente a Federico I Barbarossa. Questo vincolo con l’imperatore è ribadito "a intermittenza" durante molti secoli: per esempio i conti di Carpegna sono ancora ghibellini al tempo di Ludovico il Bavaro, mentre nel Cinque e nel Seicento militano sotto le bandiere dell’imperatore. Nel 1685 ottengono il titolo di principe del S.R.I.
Dal punto di vista del rapporto con il Papato, si rileva ugualmente un rapporto stretto e precoce, a partire dal fatto che uno dei castelli dei Carpegna risulta beneficio della Chiesa romana già dal Liber censuum (inizio del XIII secolo). I conti di Carpegna ricevono la protezione apostolica nel 1249 e alcuni loro rami sono di dichiarata fede guelfa (per esempio al tempo dell’Albornoz). Tuttavia, i loro castelli sono considerati esenti e non facenti parte né del ducato di Urbino né del dominio ecclesiastico, proprio in quanto imperiali. L’accomandigia stretta con la Repubblica di Firenze alla fine del Quattrocento fissa la situazione per diversi secoli.
Inurbatisi a Roma al principio del Seicento, i Carpegna ottengono la nobiltà romana e di altre città dello Stato Pontificio e intraprendono importanti carriere curiali. Alla fine del secolo XVII si dimostra quanto sia forte la posizione intermedia "tra Impero e Papato": così, nello stesso periodo, Gaspare di Carpegna è cardinale vicario (1670), Ulderico di Carpegna principe dell’Impero (1685) e Francesco Maria di Carpegna, benché nipote del cardinale vicario, giura fedelta all’Impero (1697).
Durante la piena età moderna, i Carpegna sviluppano un ampliamento sistematico della loro autonomia, muovendosi in sintonia con la vicina Repubblica di San Marino. Mentre la piccola Repubblica vanta la sua più che millenaria libertà e indipendenza, anche i Carpegna, su basi giuridiche diverse, si muovono nella prospettiva e nella volontà di essere liberi signori di uno Stato indipendente, esprimendosi, nella simbologia politica e negli stessi atti di governo, nei termini di una autentica "sovranità".
Nel corso del Settecento, soprattutto da quando la Toscana diventa lorenese, la situazione dei feudi Carpegna è spesso motivo di attrito tra le corti di Vienna, Roma e Firenze. Pochi anni dopo il Congresso di Vienna, nonostante l’opposizione toscana, i feudi vengono devoluti alla Reverenda Camera Apostolica, che riconosce tuttavia la peculiarità di questa antica giurisdizione.

 

Cinzia Cremonini: La feudalita’ imperiale italiana tra lealta’ all’Impero e interessi spagnoli, in: zeitenblicke 6 (2007), Nr. 1.

Per svolgere questo tema è necessario partire da alcune premesse.
I recenti sviluppi della storiografia italiana hanno portato (grazie ad una intenso confronto con la storiografia iberica) a studiare sotto nuova luce il sistema di governo spagnolo, mettendo in luce:
- la natura multipolare dell’impero spagnolo,
- la complessità dei legami esistenti tra la corte di Madrid e le oligarchie «nazionali»,
- la centralità dei rapporti di corte nelle relazioni di potere
- ed evidenziando ad esempio per quanto concerne la Lombardia spagnola il «patto» che consentì alla Spagna di ottenere fedeltà in cambio della completa autonomia nel governo locale.
Partendo da questi presupposti pare importante studiare i rapporti tra l’Impero e i suoi vassalli italiani tenendo conto di questa nuova prospettiva che aiuta a comprendere le modalità di interazione tra il governo spagnolo in Italia e le élites locali, cercando di
- mettere in luce le relazioni tra le due corti (quella di Praga-Vienna con quella di Madrid);
- esaminare quale fu il riflesso delle relazioni di corte sui rapporti tra Impero e feudi italiani,
- analizzare le relazioni Impero-Italia considerando che il re di Spagna era presente sul suolo italiano anche come diretto vassallo dell’imperatore, essendo divenuto con il testamento di Carlo V duca di Milano.
- tener conto che i feudi imperiali italiani erano una parte fondamentale di quel sistema di alleanze che costituiva il «sistema asburgico» nell’Europa d’Antico Regime.
Pare pertanto opportuno ormai superare lo schema interpretativo proposto da von Aretin e Pugliese che - sulla base di una lettura dell’Antico Regime volta a sottolineare irrazionalità ed inefficienza anziché a comprendere la diversa razionalità che regolava i rapporti tra gli uomini e le istituzioni -, hanno voluto vedere la presenza spagnola in Italia come un elemento di ostacolo, di disturbo al sistema imperiale, al punto di voler sottolineare la costituzione di un sistema feudale spagnolo parallelo a quello imperiale (von Aretin), o di voler evidenziare soltanto i contrasti (Pugliese) e non anche gli elementi di sintonia.
Lo studio di diverse famiglie e zone (Lunigiana, Langhe-Monferrato, area Mantovana), e in particolare l’analisi sul lungo periodo della storia del vicariato e del commissariato imperiale (si può parlare concretamente di plenipotenza non già dal 1603 come afferma von Aretin, ma dal 1715) ha consentito di scoprire che nel corso del periodo che va dal 1551 al 1700 la Spagna funse da intermediario dell’Impero nei rapporti con i vassalli imperiali (in particolare con la microfeudalità lunigianese e langhigiana), sia per i vincoli di parentela che la legavano agli Asburgo d’Austria, sia perchè si trattava del maggior feudatario imperiale esistente in Italia in quanto legittima feudataria del Ducato di Milano.
L’analisi comparata delle biografie dei personaggi che hanno rivestito la carica di commissario generale all’inizio del Seicento, ha consentito di mettere in luce che conditio sin qua non per ottenere l’incarico fu quella di godere di buone relazioni in entrambe le corti asburgiche le quali agirono almeno nella prima metà del secolo XVII sinergicamente. In questo periodo sono le dinastie dei vari Gonzaga minores ad essere protagonisti, ma anche i Landi o i Doria hanno avuto un interessante ruolo di referenti privilegiati dell’Impero in Italia, essendo l’espressione della sintonia che regolava i rapporti tra Praga-Vienna e Madrid in relazione ai feudi italiani, ma anche della consuetudine di queste famiglie a mantenere la propria lealtà all’Impero pur senza trascurare l’interesse a intrattenere rapporti cordiali e di collaborazione con la corte di Spagna.
Ciò detto, non si possono certo negare i contrasti tra Spagna e Impero nella gestione dei rapporti con i feudi imperiali italiani: Finale fu, cronologicamente parlando, il primo caso, cui seguirono altri fatti dai quali emerge un atteggiamento ostruzionistico e prepotente della Spagna che parrebbe volersi sovrapporre all’Impero e annullarne le giurisdizioni. Pur non potendo entrare nell’esame dei singoli casi, si può dire in linea generale che la Spagna non negò mai la propria dipendenza dall’Impero, ma con una politica che si può definire della «dissimulazione», spiegò gli attentati giuristizionali perpetrati a danno dei diritti imperiali o richiamando il superiore obiettivo di salvaguardare la difesa del Milanesado, oppure dando la colpa «ai ministri milanesi» i quali avrebbero agito nelle zone come la Lunigiana o il Genovesato (ch’erano sempre stati oggetto delle mire espansionistiche della politica ducale) perseguendo gli obiettivi di salvaguardia degli interessi visconteo-sforzeschi.
Questa politica diede anche adito alla costituzione di situazioni di ambiguità, per cui in queste zone, ma anche nelle Langhe e nel Monferrato (in cui si espresse una strategia di contenimento nei confronti delle mire del Ducato di Savoia) ci furono famiglie di vassalli imperiali che, forse intimoriti dalla presenza spagnola, molto più vicina e pericolosa di quella imperiale asburgica, talvolta titolari di feudi camerali nello Stato di Milano (come ad esempio i conti-marchesi Crivelli-Scarampi) per non ricevere disturbo dalle autorità milanesi, si lasciarono tentare dall’idea di dichiarare la propria fedeltà alla Spagna, prendendone l’infeudazione, atto che a mio avviso va inteso come funzionale al sistema di alleanze asburgico per le ragioni prima esposte.
Questa situazione favorì anche il costituirsi di legami, ad esempio con Genova o con la corte di Torino, da parte delle famiglie di feudatari più intraprendenti (alcuni Malaspina, i Crivelli-Scarampi), ma nel contempo non sempre abbastanza forti (come i Gonzaga minores o i Landi) per cercare contatti direttamente con la corte di Madrid.
La linea di condotta spagnola che si è cercato di riassumere, volta ad agire sinergicamente rispetto all’Impero anche se con comportamenti contraddittori, paradossalmente resse fino a quando la Spagna stessa fu in grado di giocare il ruolo di «collegato» più forte del sistema imperiale. Infatti proprio l’allentarsi della potenza spagnola e il risveglio della potenza imperiale asburgica negli ultimi trenta-quarant’anni del XVII secolo produsse più evidenti sbavature nelle sinergie del sistema: è a partire dal 1660 circa che si crea il concetto di «feudi controversi», mentre precedentemente si trova solo il concetto di «terre aderenti». La missione del senatore Archinto nel 1663 a Ratisbona fu nelle intenzioni della Spagna il tentativo di rivendicare il ruolo primario che grazie all’investitura di Venceslao del 1396 i Visconti, gli Sforza e i re di Spagna come duchi di Milano dovevano giocare in Italia e di ribadire il loro diritto a muoversi liberamente nella giurisdizione imperiale per poter assicurare la conservazione dello Stato di Milano.
In conclusione la Spagna, sentendo che la propria presa si andava allentando e che quella dell’Impero si andava facendo più solida, alla fine del Seicento cominciò a temere di perdere definitivamente quel ruolo di primo piano ch’essa aveva sempre giocato nel sistema di alleanze asburgico e nelle relazioni tra l’Impero e i suoi vassalli italiani. Così provò a correre ai ripari, presentando come «controversi» tutti quei casi di feudatari in cui c’era stata «aderenza» al re cattolico.

 

Maria Teresa Fattori: Diritto feudale e rafforzamento dello Stato territoriale nel dibattito del collegio cardinalizio sulla devoluzione di Ferrara alla fine del Cinquecento, in: zeitenblicke 6 (2007), Nr. 1.

Nell’ultimo decennio del Cinquecento, a causa della mancanza di un erede diretto e legittimo alla successione del duca d’Este Alfonso II, la curia romana dibatté il diritto di devoluzione del feudo di Ferrara. La ricostruzione del dibattito che coinvolse il collegio cardinalizio e i pontefici Gregorio XIV e Clemente VIII si concentrò da un lato sulla deroga della bolla di Pio V Admonet nos, dall’altro sulla partecipazione dello stato territoriale all’affermazione del primato spirituale e gerarchico di Roma nel consesso delle nazioni cristiane. La valutazione politica degli equilibri italiani, messi in discussione dall’allargamento del dominio diretto del papa su una porzione di territorio non piccola e strategicamente importante, fu collocata nel contesto degli impegni internazionali e militari assunti dalla Santa Sede. L’autenticità del legame feudale con Ferrara non fu mai in questione ma, semmai, il diritto della Santa Sede fu rafforzato da considerazioni di natura ecclesiologica che creavano un legame particolare tra il dominio, su cui il papa esercitava la sua sovranità diretta, e il contesto internazionale, in cui il papato si inseriva per esercitare forme indirette di potere. Nella vicenda del recupero di Ferrara fu evidente che il vantaggio di estendere il dominio papale assunse un alto contenuto simbolico che sommava alla forza del diritto feudale il plus valore del diritto canonico della De non infeudandis, di cui il collegio cardinalizio era garante, e, nel suo epilogo finale, la forza del ‘diritto dei cannoni’.
La volontà di papa Sfondrato di derogare alla bolla di Pio V, fece scivolare il dibattito sulla devoluzione nel ben più complesso dibattito sul ruolo di auxilium e di consilium dei cardinali nei confronti del sovrano pontefice: i concetti essenziali del diritto feudale furono messi in discussione dalle due controparti, i cardinali e il signore-papa, nel momento in cui si decideva di una questione politica e di diritto feudale, sostenendo i cardinali una posizione tradizionale in ambito ecclesiologico, per contrastare quella che viene ritenuta una perdita significativa di potere territoriale ma soprattutto una inammissibile deroga ad un principio giurisdizionale, mentre il pontefice difendeva un indirizzo di governo, per così dire, più "moderno" e innovativo in nome della pienezza di potere e del suo diritto assoluto di decidere in materia di Stato.
Il limite posto dalla bolla di Pio V Admonet nos, pertanto, stabiliva che la pienezza di potere del papa all’interno della chiesa in nome della sua missione spirituale, non consentisse al sovrano di disporre del suo stato territoriale come di un allodio o di una proprietà personale e dunque limitava la pienezza della sovranità papale sullo stato. Il collegio cardinalizio era costituito garante del rispetto di tale normativa. Lo Stato territoriale acquistava un significato prettamente strumentale, ma proprio per questo divenne simbolo dei più elevati fini che esso permetteva alla Santa Sede di raggiungere. Un caso dunque in cui visione teologica e orizzonte ecclesiologico esercitarono un influsso sulla politica.
Diversamente si posero le cose durante il pontificato di Clemente VIII che alla finè incorporò Ferrara nello Stato pontificio grazie anche ad una campagna militare guidata dal cardinale nepote Pietro Aldobrandini. La maggioranza del collegio cardinalizio e papa Aldobrandini concordavano sulla necessità di non transigere dal diritto della Santa Sede e, in queste mutate circostanze, il collegio non fu costretto a porre il problema della sua partecipazione al processo decisionale. Restò invece importante il peso del cardinale nepote, che in questo caso non fu ago della bilancia della decisione del papa, ma strumento al servizio dello stato. L’ipotesi di un aggiustamento temporaneo, fatta dagli Este, si deve inscrivere nella crescente contrarietà della congregazione di Germania-Ungheria per l’impegno militare della Santa Sede nella guerra dell’imperatore, impegno invece fortemente voluto da Clemente VIII.
Una parte del collegio dentro e fuori la congregazione di Ungheria era infatti contraria all’impegno nella guerra imperiale e a tutte le implicazioni che esso comportava nella politica finanziaria e nell’indebitamento della Camera apostolica. Furono così escogitate soluzioni ‘tampone’ che evitassero l’espressa dicitura dell’investitura, ovviando all’impedimento della bolla di Pio V. Il vero ostacolo fu però rappresentato dalla ferma volontà di Clemente VIII di recuperare il feudo Ferrarese come di impegnarsi nella guerra contro il turco. Da qui anche l’uso delle armi temporali e spirituali dell’esercito e della scomunica contro Cesare d’Este.
La questione di Ferrara, durante il pontificato di Clemente VIII, si inserisce nel contesto dell’attività della congregazione super baronibus per il controllo sui censi dei feudatari e la regolamentazione dei debiti e l’azione di acquisizione e incorporamento di castelli, feudi e territori nello stato. Il rapporto con il diritto feudale non fu dunque di segno univoco. Vi fu un’azione sistematica di rafforzamento dello stato e di riduzione delle autonomie annonarie e fiscali feudali al suo interno. Contemporaneamente, però, i diritti feudali della Santa Sede negli stati di altri sovrani furono difesi come diritti giurisdizionali, ovvero come i diritti della Santa Sede sulle diocesi immediate subiectae territorialmente disperse e al di fuori dei confini dello Stato o i diritti di persone e istituzioni ecclesiastiche che si trovavano sottoposte alla sovranità temporale di altri principi. Essi erano ritenuti infatti diritti non derogabili, anche se non tutti implicavano diritti di dominio utile.
Mentre nel lungo periodo deve essere registrata la debolezza della pretesa accentratrice dello Stato pontificio, nella congiuntura di fine Cinquecento va rilevata la forza politica e il rilievo internazionale del papato che diede consistenza politico-militare alle rivendicazioni su Ferrara. Clemente VIII condivideva dunque con il collegio cardinalizio che lo aveva eletto il principio che fondava sullo stato territoriale la missione spirituale del papato, secondo un duplice binario: alla tendenza al rafforzamento dello stato per ragioni politiche ed ecclesiologiche, si connetteva una valutazione ancora feudale in quanto il pontefice, con la garanzia del collegio degli elettori-pari, poteva ‘usare’ le risorse ricavate tramite lo stato ma lo doveva trasmettere senza manomissioni ai successori. Il progetto di riconquista del cattolicesimo romano aveva confermato e rafforzato le antiche gerarchie medievali, subordinando i prìncipi cristiani al pontefice che pretendeva di esercitare una potestas indirecta, ma aveva anche dato nuovo rilievo allo stato in funzione della lotta contro eretici e infedeli. La normativa feudale veniva così ora rafforzata ora sottoposta ma sempre subordinata alla «prevalente volontà papale».

 

Eugenio Bartoli: "Ser como una Friburgode Italia". Il ducato di guastella tra le due anime Asburgiche , in: zeitenblicke 6 (2007), Nr. 1.

Il feudo imperiale di Guastalla visse un lungo periodo di presenza sullo scenario europeo (1347 1804), sia pur con alcuni periodi nei quali dovette subire qualche deminutio. Tra i piccoli stati che costellarono il tardo medioevo e l’età moderna in Italia fu quello che meglio seppe adeguare le proprie condizioni politiche e dinastiche. Ciò avvenne essenzialmente con la casa Gonzaga (1539 1746). Da un lato per le intrinseche qualità dei suoi componenti, anche se non tutti ebbero il tempo per svolgerle nel migliore dei modi. Dall’altro per il fatto che la costante fedeltà agli Asburgo fu ripagata magari non con larghezza, non sempre in modo equo, ma sempre nei momenti più difficili, quali la minore età di Ferrante II (dal 1575), la prematura morte di Cesare II (1632), la minore età di Ferrante III (1632), la morte di questi senza figli maschi (1678). Si tratta di momenti nei quali altri piccoli stati spesso dovettero soccombere (anche per l’interesse asburgico ad eliminarli dallo scenario politico), mentre il ducato di Guastalla fu sempre considerato elemento di equilibrio indispensabile nel frammentato scacchiere dell’Italia settentrionale. Quanto più il ramo principale dei Gonzaga, ossia Mantova, decadeva politicamente per le cattive condotte di Ferdinando Carlo sino a estinguersi, tanto più i duchi di Guastalla, con Vincenzo, crescevano via via nella considerazione agli occhi imperiali e delle altre dinastie (1692 1708), per poi assestarsi nel nuovo ruolo sovrano (1708 1746), acquisendo il ducato di Sabbioneta e il principato di Bozzolo, seppur non riuscendo ad ottenere il trono di Mantova. Ma a quel punto ciò che contava era il fatto che i Gonzaga di Guastalla, insieme a Savoia, de’ Medici, Este e Farnese, rappresentavano una delle ultime cinque dinastie sovrane di antica origine italiana, riconosciuta come tale e trattata di ‘Altezza serenissima’ sin dai tempi di Ferrante III. La riorganizzazione settecentesca dello stato fu la dimostrazione che anche un piccolo dominio, se condotto con lungimiranza, era in grado di adeguarsi strutturalmente ad esempi di ben maggiore dimensione. Il lungo contendere con Vienna per ottenere Mantova fu una scuola diplomatica di rilievo. Le opzioni matrimoniali, rimaste allo stato di trattativa o concluse, dimostrarono lo status di ‘prìncipi di prima fascia’ ormai raggiunto. La vicenda di Guastalla deve dunque essere letta come una scelta di coerente e continuato impegno per il conseguimento di una sovranità piena, riconosciuta ma soprattutto degnamente considerata. Tanto che fu, con Lucca-Massa, la seconda e unica ricostituzione statuale italiana compiuta in epoca napoleonica, a favore di Paolina Bonaparte.

 

Gian Luca Podestà: I Duchi di Parma e Piacenza tra Papato e Impero, in: zeitenblicke 6 (2007), Nr. 1.

Parma e Piacenza, tramontate le libertà comunali, erano passate sotto la Signoria viscontea a metà del Trecento, e successivamente sotto quella degli Sforza. Il dominio sforzesco durò fino al 1499 allorchè il Ducato di Milano venne occupato da Luigi XII. Durante le guerre d’Italia, il papa Giulio II le annesse allo Stato della Chiesa. Le due città furono finalmente riconosciute di pertinenza del dominio dello Stato Pontificio all’atto dell’alleanza tra Carlo V e Leone X contro Francesco I (8 maggio 1521).
Tuttavia, in ambito milanese la perdita delle due città era sempre considerata come un attentato all’integrità del Ducato di Milano e più volte si innalzarono istanze all’imperatore perché le reintegrasse nello Stato. La questione divenne ancora più scottante allorchè il papa Paolo III le concesse in signoria al figlio Pier Luigi Farnese. Questa vicenda peggiorò i rapporti tra Carlo V e il pontefice, tanto più che il governatore di Milano, Ferrante Gonzaga, riteneva che i Farnese stessero tramando con la Francia per scacciare gli imperiali dall’Italia settentrionale. Data l’importanza cruciale di Piacenza, sede delle fiere di cambio e perno con Genova del sistema finanziario che consentiva agli Asburgo di reperire le imponenti risorse che occorrevano per amministrare il loro immenso impero, la perdita della città sarebbe stata un evento nefasto.
Nel settembre 1547 Pier Luigi Farnese fu ucciso nel corso di una congiura ordita da alcuni feudatari piacentini con il concorso fondamentale di Ferrante Gonzaga. Piacenza venne occupate dalle truppe imperiali. Dopo alterne vicende, un patto tra Carlo V e Ottavio Farnese, figlio di Pier Luigi e sposo di Margherita, figlia naturale dell’imperatore, suggellò il ritorno della città ai Farnese. Ottavio aveva riconosciuto l’autorità dell’impero sulle due città. Da allora in poi i Farnese furono i più fedeli alleati italiani degli Asburgo.
Per i duchi, però, era anche fondamentale rafforzare il loro dominio sullo Stato, poiché la dinastia, assolutamente estranea a quel territorio, non si fidava della fedeltà delle grandi famiglie feudali del ducato. Ottavio inaugurò una strategia che potrebbe essere definita come la "politica del delitto", che fu condotta a conclusione dal nipote Ranuccio nel 1612. La scoperta di alcune congiure, di cui è difficile valutare la veridicità o piuttosto se esse fossero frutto di una abile montatura della polizia ducale, consentì ai Farnese di giustiziare alcuni dei più prestigiosi feudatari del ducato e di confiscarne i possedimenti. In tal modo i duchi crearono un imponente patrimonio che ne rafforzò il consenso (parte delle terre furono ridistribuite) e ne agevolò il reperimento delle risorse finanziarie indispensabili per amministrare lo Stato.

 

Christine Roll: Sistema giuridico arcaico oppure strumento politico? Considerazioni sull'importanza della feudalità nell'Impero, in: zeitenblicke 6 (2007), Nr. 1.

"In Germania il feudalesimo ha impedito ogni progresso" – con tale decisa affermazione già nel 1859 Heinrich von Sybel criticò il sistema feudale. Questa veduta della feudalità come arcaica, incrostata e un ostacolo ad una riforma fondamentale dell'Impero ha caratterizzato la ricerca sull'Impero della prima Età moderna fino a pochi decenni fa. Inoltre veniva tralasciato il fatto che fino al termine dell'Antico Impero la feudalità non solo era riconosciuta generalmente come criterio principale per l'appartenenza all'Impero di regioni periferiche, ma che essa decideva anche sulla condizione giuridico-costituzionale dei singoli membri dell'Impero, cioè sulla loro posizione come "stati" dell'Impero: senza feudi imperiali nessuna partecipazione politica alla dieta dell'Impero. Dunque la feudalità non solo sopportò e prese parte alla sovrapposizione statale sull'Impero, che si manifestò verso il 1500, ma le condizioni feudali erano il fondamento sul quale questa decisiva modernizzazione dell'Impero medievale riuscì ad affermarsi.
Cosa si può dire di più sull'importanza della feudalità nell'Antico Impero? Dapprima è da constatare che nei successivi conflitti tra l'imperatore e gli stati per la spartizioni delle competenze nell'amministrazione dell'Impero – all'inizio del governo di Carlo V e durante il congresso di Vestfalia – gli stati non hanno leso la supremazia feudale dell'imperatore. Hanno tentato, invece, di estendere le loro competenze in altri ambiti e rapporti giuridici: progettando un ius territoriale e procurandosi una libertà d'azione nell'ambito della politica estera mediante un ius foederis e un ius belli ac pacis. Tutto ciò, alla fine, portò ad un indebolimento della supremazia feudale. Infatti, per gli stati armati la prassi politica sull'esempio delle monarchie dell'Europa occidentale si dimostrava sempre più attraente, l'obbligo di fedeltà verso l'imperatore e l'Impero presto non poteva più competere con le norme del diritto internazionale tendenti alla sovranità, all'equilibrio, ed infine verso l'inizio del Settecento l'omaggio degli stati territoriali perse la sua importanza come elemento cruciale dell'ascesa al trono dei principi imperiali. Con tutto ciò anche l'investitura imperiale perse il suo valore quale fonte legittimante del governo dei principi dell'Impero: Carlo VI riuscì a malapena ad indurre i principi dell'Impero ad inviare un'ambasciata a Vienna per prestare l'omaggio feudale e raramente poteva eseguire l'atto dell'investitura. Giuseppe II, invece, già nel 1767 non riuscì più ad esporre quale potesse essere il vantaggio politico dei legami feudali – pur lagnandosi in maniera prolissa della loro perdita.
La feudalità imperiale rappresenta dunque solo la storia di una decadenza di significato? Certo, la feudalità dimostrò di essere incompatibile con i principi del diritto pubblico ed internazionale e alla fine soggiacque ad essi, in primo luogo al razionalismo illuminato. D'altra parte esistono molti esempi che dimostrano che – almeno fino al Settecento – i rapporti feudali potevano essere utilizzati come strumento politico in modo molto effettivo: dall'imperatore che, per esempio, mediante la protrazione dell'investitura faceva pressione su un principe dell'Impero; da una famiglia principesca dell'Impero che mediante l'investitura di tutto il casato si assicurò i suoi feudi; ed anche dagli stati territoriali che contrapposero l'imperatore in quanto dominus directus al loro principe. Infine, per sottolineare l'importanza della feudalità per la realtà costituzionale dell'Impero vorrei mettere in rilievo che fu l'antico nesso feudale a spingere nel 1806 i re di Svezia e Gran Bretagna – tra l'altro gli unici – a protestare contro la dissoluzione dell'Impero.

 

Matthias Schnettger: L'abolizione della Chinea ed il crollo del sistema feudale pontifico nel Settecento, in: zeitenblicke 6 (2007), Nr. 1.

La relazione abbozza gli eventi del 1788 e degli anni seguenti, quando Ferdinando IV, re di Napoli e di Sicilia, non inviava più a Roma la cavalla bianca, detta la Chinea, come segno del suo omaggio feudale per il regno di Napoli verso Papa Pio VI. Pur pagando i soliti 7 000 ducati d'oro – ma come offerta pia verso i Santi Apostoli Pietro e Paolo – la corte di Napoli con ciò dimostrava pubblicamente di non riconoscere più l'alto dominio della Santa Sede.
Nella susseguente guerra pubblicistica la Curia Romana basandosi sulle lettere d'investitura e su deduzioni storiche e giuridiche, tentò di dimostrare il suo antichissimo possesso ossia alto dominio sul regno di Napoli. La controparte, invece, poteva contare sull'opinione pubblica illuministica, quando attaccava le pretese romane in quanto emanazione della medioevale aspirazione papale alla monarchia universale e basate su frodi ed usurpazioni. Retaggio dei "secoli oscuri", le mire papali venivano giudicate non degne del secolo illuminato. In più veniva sottolineata la "incoerenza della natura del regno da quella del feudo" (Discorso sulla chinea pretesa da Roma), e alcuni scrittori, richiamandosi alla teoria del contratto sociale, asserivano che, nonostante il re ne avesse intenzione, non poteva alienare i dritti di sovranità.
Alla fine della relazione vengono esposte tre conclusioni generali:
1. Fino al termine dell'Antico Regime, l'elemento cerimoniale conservava un'importanza particolare nell'ambito della feudalità non solo papale ma anche imperiale. L'abolizione dell'omaggio della Chinea rappresentò la pubblica denuncia del legame feudale e così era vista da avversari e fautori della corte di Napoli.
2. Quello che ancora alla fine del Cinquecento era stata una forza peculiare della feudalità pontificia, il "mescolamento" di potere spirituale e secolare, alla fine del Settecento sembrava più un peso di un vantaggio, spingendo le forze illuminate alla lotta contro le pretese nate nei secoli bui.
3. Alla fine dell'Antico Regime la feudalità interstatale – non solo pontificia, ma anche imperiale – era divenuta un elemento irregolare in un sistema internazionale che tendeva tendendo verso la formazione di stati sovrani uguali senza alcuna soggezione a qualsiasi autorità straniera. Non a caso gli ultimi residui di questo tipo di feudalità furono distrutti nell'epoca della Rivoluzione francese e di Napoleone.

 

Vittorio Tigrino: L'impero ai confini. I feudi imperiali tra Regno sabaudo e Repubblica di Genova alla fine dell'Età moderna, in: zeitenblicke 6 (2007), Nr. 1.

Il territorio compreso tra il territorio attuale della Liguria, del Piemonte e della Lombardia è stato contraddistinto per tutta l’Età Moderna dall’esistenza di una fitta rete di feudi imperiali, che, almeno in parte, hanno conservato la loro autonomia dai potentati confinanti fino alla caduta dell’Antico Regime.
La presenza di queste entità politiche di dimensione, importanza e qualità molto disomogenee, ha subito nel corso del tempo profonde trasformazioni, dovute alle dinamiche di vendite, acquisti ed accorpamenti, e – soprattutto nel corso del Settecento – ai tentativi successivi di acquisizione ed incorporazione all’interno degli stati territoriali vicini.
Le mie considerazioni partono dalle strategie con cui la Repubblica di Genova ed il Regno sabaudo tentarono per lungo tempo l’acquisizione di questi territori, e sui problemi che incontrarono, per riflettere sulla peculiarità di queste configurazioni politiche, che hanno goduto fino a pochi decenni fa di una scarsa considerazione da parte della storiografia, probabilmente perché estranee alle categorie che hanno monopolizzato la ricerca (stato moderno; illuminismo; riforme; ma se vogliamo anche al rapporto centro/periferia).
Nel caso sabaudo, che per tutta la prima metà del Settecento vive una forte espansione territoriale, l’acquisizione di territori già imperiali comporta lunghissime trattative, con le magistrature imperiali, ma anche con i feudatari e con le comunità annesse. La documentazione lascia poi emergere quali fossero le argomentazioni per rivendicare e per conservare la loro particolare qualità politica e giuridica (attraverso contenziosi in cui spesso gli ex-feudi imperiali sono considerati insieme a quelli ex-pontifici, per la comune riottosità che li contraddistingue); mostra inoltre come nel corso del tempo gli ufficiali sabaudi e quelli imperiali riconsiderassero i legami storico-giuridici tra quei territori e il Sacro Romano Impero.
Lo stesso accade nel caso di Genova, la cui politica di acquisto si arresta però presto, poco dopo la clamorosa annessione del Finale. Piuttosto il governo genovese si trova a dover fare i conti, fino alla sua caduta, con le pretese di superiorità che l’Impero rivendica su tutto il territorio della Repubblica, e che sono portate avanti in maniera strumentale a livello locale e «internazionale», anche attraverso una fitta produzione pubblicistica.
Del tutto opposto a queste dinamiche è invece l’operazione che porta nella seconda metà del secolo alla costituzione del «Principato di Torriglia» da parte della famiglia Doria, che garantisce ai feudi coinvolti un particolare riconoscimento da parte dell’Impero. Essa rappresenta uno sviluppo interessante, ed inedito, e dimostra l’esistenza di modelli politici di riferimento alternativo a quelli dell’accentramento statale alla fine del ‘700.
La presenza dei feudi imperiali complica il quadro politico-amministrativo di questo territorio, già caratterizzato da una forte discontinuità (e come detto da una dinamica di cambiamenti fittissima). Moltiplica a dismisura le aree di confine, che, per la zona in oggetto, ha una estensione ed una frammentazione evidentissima. Un confine che proprio in questi anni si tenta faticosamente di ridefinire, in una ottica di «statalizzazione» dei problemi confinari, attraverso lunghe contrattazioni diplomatiche che vengono costantemente vanificate dal protrarsi di questi conflitti a livello locale. Nel caso dei feudi e degli ex-feudi imperiali – coinvolti in maniera conflittuale se non addirittura estranei a queste operazioni - questi problemi si complicano, anche per la mancanza di una contrattazione a livello generale della questione. Ci si confronta invece con la particolarità rivendicata dai territori legati all’Impero, ed anzi con la consuetudine di sfruttare le prerogative di autonomia (ad esempio con il contrabbando), e di rivendicarle costantemente di fronte a tentativi di riforme fiscali ed amministrativi.

 

Erstellt von: RedaktionZB
Zuletzt verändert: 2007-04-22 05:27 PM